Giovani Oltre i margini
Essere giovani in un’area interna del Molise
di Maria Fioretti (da orticalab.it)
02 ottobre 2024
Il volume firmato da Vincenzo Carbone e Mirco Di Sandro rappresenta l’esito di un percorso di ricerca che analizza la costruzione delle biografie e dei progetti di vita dei giovani dell’Alta Valle del Volturno, dove emergono nuove domande e riflessioni sulle marginalità sociali e territoriali. «Interessante scoprire altri modi di abitare, uno stile “multilocale” che porta a muoversi e investire tra più luoghi»
Sui bordi del qui e dell’adesso. Essere giovani in un’area interna del Molise è il libro firmato da Vincenzo Carbone e Mirco Di Sandro, entrambi PhD: il primo è Professore Associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Scienze della Formazione di Roma Tre, dove dirige transizioni, Laboratorio di ricerca su mutamenti sociali e nuove soggettività. I suoi interessi di ricerca e le pubblicazioni vertono su processi migratori, trasformazioni urbane e forme di precarietà. Mentre Di Sandro – che abbiamo conosciuto QUI – è Dottore in Sociologia e Ricerca Sociale, attualmente assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Formazione di Roma Tre. Si occupa di studi sulle disuguaglianze sociali e territoriali, sui processi di precarizzazione e marginalizzazione, con particolare riferimento alle aree interne e periferiche del Paese.
Con loro arriviamo nell’Alta Valle del Volturno, toponimo che non esiste ufficialmente sulle mappe, ma viene utilizzato dagli abitanti di alcuni comuni che si affacciano sulle rive del Volturno, a partire dalla sua sorgente – dove il fiume sgorga dalle montagne – fino a poco prima della Piana di Venafro, punto in cui assume un carattere diverso, perché comincia la zona industriale che non lascia illese le acque.
Ci troviamo sull’Appennino molisano, che confina a nord con l’Abruzzo, a ovest con il Lazio e la Campania. Si tratta di una piccola porzione del Molise, quella situata nell’angolo in alto a sinistra della regione. Paradossalmente si tratta di un’area ben collegata alle grandi città: si arriva a Napoli in un’ora e mezza, a Roma in due e a Pescara in poco meno di un’ora e mezza.
Rispetto ad altre parti della regione, che soffrono una pessima viabilità, l’Alta Valle del Volturno funziona come porta d’accesso. Tuttavia, rimane comunque difficile da raggiungere a causa delle strade montane, con un dislivello che raggiunge anche gli 800 metri. Molti paesi si trovano proprio a questa altitudine e l’area è in rapido spopolamento: nel complesso ragioniamo di una popolazione anagrafica tra i 7 e gli 8 mila abitanti. «Il tema principale è che molte persone conservano la residenza senza abitare stabilmente questi luoghi – ci spiega Mirco Di Sandro – quindi il numero reale di abitanti si attesta probabilmente sulla metà. L’area è abbastanza estesa, con una parte montana significativa, ma assolutamente spopolata, in cui si rilevano le criticità a cui vanno incontro quotidianamente tutte le aree interne, quelle meridionali in modo particolare. Compresa nella SNAI c’è l’area Mainarde, che include 13 comuni lungo la catena montuosa che segna il confine tra Lazio e Abruzzo».
Il libro Sui bordi del qui e dell’adesso rappresenta l’esito di un percorso di ricerca volto ad analizzare la costruzione delle biografie e dei progetti di vita dei giovani dell’Alta Valle del Volturno: «L’idea ci è venuta quando il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre ha indetto un bando per co-finanziare un assegno di ricerca. Il Dipartimento avrebbe coperto metà delle spese e, per l’altra metà, sarebbe stato necessario trovare fondi esterni. Insieme al professore Carbone, con cui collaboro, ci siamo attivati per coinvolgere enti locali e associazioni per coprire il resto delle risorse economiche necessarie. Un primo aspetto interessante è che, forse per la prima volta, in questo territorio più soggetti e realtà si siano unite per finanziare uno studio sulla condizione dei giovani».
Decisamente un passo virtuoso, capace di creare un legame tra l’Alta Valle del Volturno e l’Università, avviando un dialogo concreto tra l’Accademia e i processi reali sul campo: «La nostra è stata una pratica di ricerca-azione, una ricerca situata con l’obiettivo di fornire strumenti utili agli enti locali e a chi ha sostenuto il progetto, ma anche per chi volesse elaborare politiche e interventi sul territorio. Non volevamo semplicemente analizzare l’attualità, ma anche comprendere la “domanda di territorio”, come l’abbiamo definita, cioè l’insieme di desideri e bisogni di chi vive in questo contesto».
Un appoggio per nulla scontato a queste latitudini: «Se consideriamo non solo la situazione economica, ma anche quella prospettica, molte amministrazioni e associazioni locali, incluso anche il CISAV – Centro Indipendente Studi Alta Valle del Volturno – si trovano spesso in difficoltà a far quadrare i bilanci. Investire in questo progetto, però, non ha significato solo destinare dei fondi, ma anche credere che sia necessario fare ricerca per comprendere meglio il senso dell’abitare collettivo e le percezioni della comunità. È un messaggio importante, che esprime fiducia e impegno nella promozione dei processi di questo tipo».
La ricerca è durata un anno, ha coinvolto 8 comuni ed è servito poi altro tempo per riorganizzare i risultati. «Sempre il Dipartimento romano di Scienze della Formazione ha finanziato la pubblicazione del lavoro con Pacini Editore, che ha mostrato fin da subito grande curiosità e disponibilità per il tema e il percorso portati avanti, sostenendoci pienamente nell’uscita».
Ci stiamo concentrando su una zona deprivata di molti servizi, con una popolazione per lo più anziana. Tuttavia, uno degli aspetti interessanti emersi dalla ricerca di Carbone e Di Sandro riguarda il periodo del Covid e del post-Covid, durante il quale si sono verificati fenomeni di ritorno e di ripopolamento, anche se limitati: «Sono nate diverse associazioni e qualche micro-impresa locale, create con l’idea di favorire il rientro dei giovani. Pochi di questi ritorni si sono effettivamente concretizzati, ma si è aperta una possibilità per molti, almeno nell’immaginario, di una nuova prospettiva di vita. Ma un altro aspetto che ci ha colpiti – rivelandosi una vera e propria scoperta – è l’esistenza di nuovi modi di abitare. Non parliamo solo di chi vive stabilmente in questi paesi, ma anche di chi adotta uno stile di vita “multilocale”. Infatti abbiamo rilevato che molti giovani viaggiano abitualmente e dividono il loro tempo tra più luoghi. Grazie allo smart working, ad esempio, abitano parte della settimana in città come Roma e poi rientrano nei paesi di origine per il resto del tempo. Questo fenomeno di mobilità non è una novità per gli abitanti dell’Appennino, caratterizzato da popoli mobili, un atteggiamento che ritroviamo nella transumanza, in questo spostamento attraverso le montagne. È una delle evidenze più significative emerse dalla nostra ricerca».
In diversi casi, al di là della realizzazione concreta di questo stile di vita, quello che la parentesi pandemica ha messo in luce non è tanto il ritorno fisico delle persone, ma l’apertura di nuove prospettive di abitabilità per i territori: «Molti hanno iniziato a progettare, a formare gruppi, a organizzare attività culturali. In questo modo si è ricostruito un ponte che lo spopolamento aveva spezzato. Ed è questo che facciamo anche con il CISAV – continua Mirco Di Sandro, che dell’Alta Valle del Volturno è un abitante – il cui ruolo è stato fondamentale per la redazione del libro. Partendo dalle nostre esperienze di persone che hanno studiato e lavorano altrove, abbiamo “territorializzato” la rivista, ridisegnando lo sguardo sul territorio e iniziando a realizzare progetti. Come noi, tanti altri che magari hanno dovuto lasciare la loro casa in città, ora vivono in modo più flessibile. Alcuni trascorrono solo parte del mese o della settimana in città, affittano case per periodi brevi e tornano a lavorare nei paesi. È interessante perché il concetto di casa si è sdoppiato. Quando chiediamo di dove sei? – domanda che abbiamo posto spesso agli abitanti – emerge una difficoltà a definirsi in modo univoco. Non c’è un’unica risposta, le persone abitano più luoghi contemporaneamente, investono sia economicamente sia a livello relazionale, svolgendo attività in entrambi i territori».
Perciò hanno scelto di intersecare il duplice piano delle marginalità sociali e territoriali, discutendo il senso dei margini e definendo alcune prospettive sul superamento: «Partendo dalla sociologia della marginalità, abbiamo ripreso il concetto, lo abbiamo smontato e rimontato. Tradizionalmente si intende come qualcosa che non sta al centro o si trova ai confini, noi abbiamo cercato di intrecciare i vari livelli di marginalità. Analizzando soprattutto quelle sociali, siamo arrivati al particolare dei giovani precari, esclusi dal mondo del lavoro e da altri aspetti fondamentali della vita quotidiana, così ci siamo chiesti: cosa accade quando un giovane, già socialmente marginalizzato, vive anche in una condizione di marginalità territoriale? Non è solo una questione di servizi mancanti, ma diventa quasi una condizione esistenziale. E abbiamo trovato testimonianze notevoli, perché oggi, grazie all’innovazione tecnologica, gli stimoli arrivano contemporaneamente sia in città che nei paesi. Questo significa che, anche in un territorio deprivato di servizi e opportunità si può avere uno stile di vita non necessariamente marginale. Detto ciò, lo scatto necessario è maggiore, e le possibilità restano limitate. Chi vive in un’area interna avverte comunque la mancanza di servizi e risorse e questo aspetto si collega direttamente alla riflessione sul partire, tornare o restare».
Obiettivamente nei nostri territori – e includiamo anche l’Irpinia – è spesso più semplice e immediato arrivare alla scelta di andare via, perché altrove si trova più spazio per realizzarsi.
Pur non offrendo conclusioni definitive, la ricerca apre a nuove domande e riflessioni sulle complesse dinamiche che caratterizzano le condizioni giovanili nei piccoli paesi: «Volevamo innazitutto smontare l’unicità della categoria “giovani”, perché oggi parlare di giovani può voler dire tutto o niente. I confini generazionali sono sempre più sfumati: quando si smette di essere giovani? E quando si diventa vecchi? C’è chi, da adulto, viene considerato “giovanile” e chi, da giovane, viene etichettato come “vecchio”. Quindi, i confini tra le dimensioni generazionali hanno perso la loro utilità esplicativa. Dalla nostra ricerca si capisce che esistono modi diversi di essere giovani oggi».
Se prendiamo questo assunto di base e lo colleghiamo alla possibilità restare, ci troviamo davanti a un altro punto cruciale: si diventa più consapevoli di cosa significhi vivere nei paesi solo se si è partiti: «Chi è andato via riesce ad apprezzare il proprio luogo d’origine e comincia a costruire. Restare non significa essere immobili, anzi è importante confrontarsi con l’esterno, per evitare di tendere all’isolamento e alimentare logiche campanilistiche che non fanno bene ai territori. I restanti più convinti sono spesso quelli che hanno vissuto altrove, hanno sperimentato, si sono lasciati contaminare da altre energie e ora possono portare qualcosa di nuovo e di positivo al territorio. Le esperienze più rappresentative, infatti, riguardano giovani altamente qualificati, professionalizzati, che tornano e mettono le loro competenze al servizio del luogo, realizzando iniziative all’interno – che siano di impresa o culturali – e in questo modo moltiplicano le opportunità anche per il resto degli abitanti».
E tra le pagine si trova anche una distinzione tra restanti e rimasti, ad avvalorare il pensiero di Carbone e Di Sandro: «Abbiamo inteso i rimasti nel senso di una staticità che perdura rispetto al territorio e che può diventare privazione rispetto ad altre prospettive. Dei restanti invece abbiamo appena parlato, è il contrario dell’attesa, è la spinta a riscoprire, la volontà di cambiare i luoghi. Muovendoci per l’Alta Valle del Volturno abbiamo anche notato che i giovani escono sempre meno; ad affollare bar e piazze nei paesi si trovano gli anziani, mentre le nuove generazioni, complice la digitalizzazione, tendono a restare a casa. Dunque la vera differenza non è tanto è tra chi parte e chi resta, ma tra chi torna e ha l’energia giusta per portare qualcosa che diventi generativo sul territorio. È stato bello ascoltare le storie di ritorno dei giovani. Spesso si tende a mitizzare queste esperienze oppure vengono ridotte a una semplice classificazione: sono partito, sono tornato, sono rimasto. Ma quando decidi di immergerti nel vissuto emotivo delle persone, scopri molta conflittualità e anche un certo senso di sconfitta. La maggiorn parte dei ritorni avviene dopo un fallimento altrove e tornare non è mai facile. Ritrovarsi di nuovo a casa, con i genitori, senza soldi o relazioni, può rivelarsi una sfida complessa. Eppure è stato stimolante vedere come questi ragazzi, dopo un periodo di due anni o più, abbiano iniziato a ripensarsi, a ridefinirsi. Hanno cominciato a costruire nuove traiettorie, nonostante le difficoltà».
L’invito è quello di andare oltre i margini, di dare voce alle esperienze e alle istanze dei giovani, di creare spazi di ascolto e di partecipazione attiva per costruire un futuro più inclusivo e sostenibile.
Metodologia certo, ma anche un approccio esistenziale. Come ben ci racconta Mirco Di Sandro: «Mi sono mosso da abitante, non solo come ricercatore. Questo aspetto, in un certo senso, è stato un ostacolo, perché mi conoscono tutti e quando prendevo il registratore, chiedendo di procedere all’intervista, emergevano solo aneddoti superficiali, generici. Tuttavia, ho notato un forte bisogno di raccontarsi da parte dei giovani, cosa che mi ha entusiasmato. Nei nostri paesi non sono abituati a sentirsi dire: “raccontami di te” e trovare poi anche una reale propensione all’ascolto. Notando che le interviste tradizionali non stavano funzionando, ho adottato un altro approccio: ho vissuto il campo come abitante, facendo analisi nel senso più diretto del termine e alla fine le conversazioni più significative sono avvenute in contesti informali, al bar, spesso anche dopo la mezzanotte, davanti a un bicchiere di birra. Si sono rivelati i momenti più veri, in cui si sono create discussioni collettive, partendo dalla semplice interazione con i giovani del paese. Ed è sorprendente come, in quelle notti, non si sia parlato di calcio o di argomenti leggeri, ma di progettualità, di come costruire alternative, in una sorta di riflessione collettiva, coinvolgente. Dialoghi che per me hanno rappresentato un’esperienza intensa, un misto di turbamento e gioia, ho stretto legami più profondi con persone che conoscevo appena, che consideravo banalmente solo dei compaesani. Credo nella ricerca proprio per questo: per il suo potenziale di costruire relazioni, creare reti e favorire la nascita di nuovi immaginari, visioni di un presente ma soprattutto di un futuro diverso».
(Immagine in copertina, Natalino Russo. Copyright: x-default)
di Maria Fioretti (da orticalab.it)