Il coraggio di camminare, gesto naturale ma rivoluzionario
Nell’età dell’iperconnessione e dell’efficienza neoliberista è un atto di ribellione. Thoreau trascorreva 4 ore al giorno passeggiando per i boschi. E per Le Breton marciare ci proietta oltre, aprendoci al mondo
di Donatella Di Cesare- (espresso.repubblica.it)
11 novembre 2019
L’esistenza non è mai lieve. Tanto meno all’epoca del neoliberismo con il suo ritmo sfrenato, l’obbligo dell’efficienza, la competizione implacabile, i mille impegni che punteggiano e soffocano la quotidianità. Mai un attimo per sé. Al contrario: tutti gli sforzi sono volti a sostenere il peso di quelle tante maschere che costituiscono ormai la persona, in pubblico e in privato.
Ecco perché la vacanza non è più solo riposo. Piuttosto è una sospensione che promette di restituire leggerezza. La pressione si attenua, i vincoli si allentano. Il sé prende congedo, almeno per un po’, dal proprio ruolo, dal personaggio che è costretto ogni giorno a interpretare, lasciandosi alle spalle persino la propria storia. Si vedrà al ritorno. Intanto si apre quella via di fuga, che lo affranca dai legami sociali, che lo libera seppur temporaneamente.
Senza dubbio c’è vacanza e vacanza. Ecco i turisti che pretendono di vivere per un po’ sulle Alpi come se fossero a casa propria. Vanno bene le vette e un po’ di aria fresca. Ma poi le comodità e le abitudini devono essere quelle di casa! Lo stesso vale per gli stanchi e accaldati cittadini che trovano rifugio nella frescura delle località balneari. La natura non è per loro che uno strumento di ristoro.
Ma viaggiare è un’arte. Ed è un’arte sempre più rara nell’alienata età del turismo di massa e dei consumi smodati. Meglio, forse, di ogni altro narratore l’ha colta Hermann Hesse nella una sintesi poetica: «azzurra lontananza». Ovunque sia, il viaggio è quell’alone di lontananza che avvolge il paesaggio quotidiano con la sua fredda e spesso insignificante quotidianità. Dietro le ultime alture, oltre l’orizzonte marino, il mondo naufraga in una profonda azzurra bellezza. Profumata, misteriosa, inconsueta. Perciò la voglia di viaggiare è così affine al desiderio di pensare temerariamente.
Quale viaggio è allora più autentico del cammino a piedi? Chi decide di camminare si abbandona alla libertà, s’inoltra nell’aperto. Lascia la fissità ammaliante dello schermo, interrompe l’artificiosa immobilità, cui è consegnata oggi la condizione umana, sceglie quel gesto così naturale. Ha scritto Henry David Thoreau in un celebre saggio: «Ritengo che non potrei conservare la mia salute e le mie facoltà se non passassi almeno quattro ore al giorno, e spesso anche di più, bighellonando per i boschi, le colline e i campi, completamente libero da ogni preoccupazione materiale».
Camminare è come respirare. Non se ne può far a meno. Con quell’atto quasi anacronistico, in un globo lanciato ad alta velocità, il corpo si ribella alla biopolitica che lo vorrebbe controllarlo, dominarlo, fissarlo, e chiede che vengano rispettati i suoi ritmi, riscoperti i sensi, valorizzate le capacità. Già questo è un modo di sovvertire il quotidiano.
Attenzione, però! Sarebbe un errore scorgervi solo una scelta salutista. La marcia – come suggerisce David Le Breton – è un’immagine efficace dell’esistenza. Ma a ben guardare è anche di più. Camminare è tutt’uno con l’esistere. Ad ogni passo il sé si decentra, proiettandosi oltre, aprendosi al mondo. Perciò camminare ravviva e rianima. Si lascia indietro la tristezza, gli umori malinconici, i pensieri uggiosi, si afferma quella che Spinoza ha chiamato la «potenza di esistere». Gioia dello sforzo, soddisfazione della tenacia.
Chi cammina sa che può ritrovare se stesso solo smarrendosi. Il cammino è un’introspezione rigenerante, un perdersi per decostruire quell’identità fittizia e vincolante. Ma c’è molto di più. La trama dei sentieri è l’universo della reciprocità. Occorre essere solidali. L’apertura al mondo è anche apertura all’altro. Dove si lasciano le strade battute, tra ripidi pendii e bruschi tornanti, declivi scoscesi e brughiere selvagge, ogni incontro, imprevedibile e fortuito, può essere decisivo, salvare la vita. Il mondo a piedi è la riscoperta della comunità.
Ha scritto Erlin Kagge che camminare è una «zona franca». Già solo per la scelta a ogni bivio, se non addirittura per la possibilità di creare il proprio tragitto. Ma è franca anche per quella gratuità che la caratterizza. Perché hai percorso a piedi la via francigena? Perché sei arrivato fino a Santiago di Compostela? Perché hai scalato l’Everest? Non c’è un perché – né c’è un dovere. Soprattutto non c’è profitto. Come tutte le attività essenziali, camminare è un atto superfluo e gratuito, che non è subordinato a un fine, che si sottrae alla logica del calcolo e all’economia del tornaconto. Si cammina per il piacere di camminare, assaporando la gioia di esistere. Dove s’insinua l’interesse, dove – come ormai spesso avviene – s’impone il guadagno, il camminare perde il suo senso. Non si può infatti intenderlo come uno sport, con le sue regole, le sue tecniche, il suo agonismo.
Camminare è un atto di libertà già quando si limita a una semplice passeggiata. Non ci si muove per andare in ufficio, raggiungere, la metro, fare la spesa, ecc. Non c’è una meta. Si va a zonzo, si pensa ad altro. Ma è tanto più libero quanto più a lungo dura. La sospensione può diventare una vera e propria rottura, quando l’aperto prende il sopravvento, quando dal fuori non si è più disposti a rientrare. È la trasgressione, la rivolta. Rifiuto delle grigie norme, delle fredde convenzioni che, nell’azzurro del cammino, appaiono sempre più insopportabili.
Quanti filosofi – da Rousseau a Nietzsche – l’hanno sperimentato! La scoperta della Natura ribelle risveglia la ribellione naturale contro una civiltà che si rivela imputridita, guasta, corrotta. Il fuori diventa allora lo spazio irrinunciabile di un cammino che procede senza più tornare indietro.
Il fuori diventa l’altrove filosofico, poetico, letterario. Non è distante. È, anzi, in mezzo al mondo, nell’aperto dove, faccia al vento, spalle ai muri, respirando l’aria tersa del mattino, si possono riconoscere nitidamente i limiti della pólis, le miserie della storia, le ingiustizie della società, le violenze della vita. Non è fuori, bensì nel giardino artificiale della civiltà che crescono odio e frustrazione, che si alimentano rancore e ostilità.
Marcia e utopia si toccano, fino quasi a convergere. Ecco perché camminare ha una dimensione non solo esistenziale, ma anche politica. Il carattere utopico della marcia non va però frainteso. Il camminatore non è un visionario, non vagheggia un luogo inesistente, l’isola che non c’è. E neppure è un avventuriero alla ricerca forsennata dell’estremo e dell’esotico. Ha i piedi ben piantati sul terreno, lì dove, nella sua frugalità, riscopre l’asse verticale della vita. La sua utopia è quella del luogo altro, del margine, delle vie traverse, dei sentieri non ancora battuti. Si scopre viandante, anzi pellegrino, che vuol dire straniero, esule, espatriato in patria. Cammina per non sentirsi più a casa propria – se non nella parola del suo compagno di strada. In quell’espropriazione può godere finalmente del mondo. E in fondo anche di sé, senza dover più assoggettarsi al faticoso gioco dell’identità.
La marcia non è dunque solo il vagabondaggio solitario fuori dalla città. Non esiste una ricostruzione storica della marcia collettiva e delle molteplici, codificate forme che è andata assumendo. Diciamolo pure: camminare insieme può essere già, ed è stato, l’inizio della rivoluzione. La fermezza del camminatore si consolida, la resistenza si potenzia fino ad assurgere a rivolta, fino a divenire insurrezione. Quanti esempi si potrebbero ricordare già solo nella storia degli ultimi secoli! Le marce hanno cambiato il corso della Storia. Senza ricorrere necessariamente alla violenza. La marcia di protesta nasce, anzi, insieme alla disobbedienza civile, quasi come modalità, versione concreta della contestazione. Si marcia insieme legati da uno stesso sdegno, uniti da comuni ideali. Ecco il valore irresistibile della marcia che oggi, malgrado tutto, non abbiamo dimenticato: non arrendersi, resistere, camminare.
di Donatella Di Cesare- (espresso.repubblica.it)